ZENE SREBRENICE

La memoria quotidiana e il futuro immaginato dalle Donne di Srebrenica 15 anni dopo la fine della guerra.

 Installazione fotografica di Virginia Farina

 

 Per molte donne, in diverse parti del mondo, ricominciare a vivere dopo una guerra significa un po’ spezzarsi in due. Da una parte c’è un’esigenza pressante di memoria, ci sono i corpi dei morti, dei figli, dei mariti, dei padri e delle madri che chiedono di non dimenticare, che chiedono di cercare giustizia per quanto accaduto. Dall’altra c’è il tempo quotidiano della vita, le piccole cose di ogni giorno che reclamano attenzione, che poco a poco instillano desiderio di rinascita. 

Le donne dopo una guerra sono, così, investite di un doppio ruolo, sono le depositarie della memoria e le responsabili di una ricostruzione, sono ponte vivente tra il passato e una possibilità di futuro.

 

Questo lavoro nasce dall’incontro con tre donne bosniache di tre diverse generazioni. Tutte fanno parte dell’Associazione Donne di Srebrenica, dove sono attivamente impegnate nel sostegno delle altre vittime e nell’estenuante richiesta che i crimini di guerra vengano finalmente puniti.

Tutte hanno una visione chiarissima di quello che è il loro ruolo e la loro responsabilità nei confronti del futuro, perché tragedie simili non possano ripetersi.

Ho cercato di raccontare le loro storie, uniche e al tempo stesso esemplari, fatte di eroismi e di quei piccolissimi gesti che più di tutte le grandi parole sanno dar vita alla vita.

 

Le donne di Srebrenica sono le madri di un futuro ancora da inventare. Protagoniste del cambiamento, depositarie della memoria, il loro bisogno inappagato di giustizia dura da oltre quindici anni. Da quando quell’11 luglio del 1995 si trovarono sole, a ricucirsi le ferite di una guerra che in pochi giorni si era portata via le vite di figli, mariti e padri, sotto gli occhi ciechi di una pur presente Europa. Sono madri, sorelle e figlie, vite diverse unite da un unico obiettivo: rimettere insieme i pezzi. Quelli della memoria e quelli dei corpi straziati dei loro uomini. E costruire la possibilità di un futuro dignitoso, che rivendichi il suo spazio, nonostante la menomazione, nonostante le violenze.

Eccole finalmente insieme sotto il nome comune di “Zene Srebrenice”, le “donne di Srebrenica”:  i loro sguardi profondi e irrequieti che scrutano dentro, dove risiede il passato e trova spazio il futuro. Ogni giorno per loro è un passo coraggioso vissuto in controluce, sullo sfondo di un passato buio, oppure sotto il sole che dissipa le ombre.

Alla ricerca di una vita che rinasce sempre dallo stesso punto: una stanza piena zeppa di volti fermi nel tempo. Sono le facce dei loro ottomilatrecentosettantadue uomini. Averli avanti tutti insieme ogni giorno, raccontano Hajra, Habiba e Advija – le tre donne di Srebrenica che lo sguardo attento di Virginia Farina ci restituisce in questo lavoro – non è un gioco macabro né una pratica ossessiva. È che in quella stanza, in quella tappezzeria di facce ingiallite, lì e soltanto lì sopravvive la vita.

Al di là di quella stanza ci sono le loro case, teatri della loro preziosa missione civile, ventri materni che custodiscono il ricordo e lo proteggono dalla dimenticanza, e che allo stesso tempo fungono da spazi in cui giorno dopo giorno prende forma la rinascita. Case che non conoscono più gli elementi corali di una vita familiare, ma solo piccoli e singolari universi femminili in cui il tempo scorre tra gli oggetti di oggi e quelli di ieri: cuscini, tappeti, quaderni, vecchie fotografie. Semplici emanazioni delle loro storie, delle individualità di queste donne, figlie di un secolo che è nato e morto nella loro terra e mamme di un’Europa migliore che ancora tarda a nascere.

Simboli a parte, sono fatte di carne le donne di Srebrenica. Anche per loro il giorno è scandito da piccole sfide. La corriera che porta a Tuzla, le preghiere da dire in faccia al sole, la felicità da ritrovare nelle pieghe. In città si va per mille diversi motivi. Hajra ha un dente da rattoppare, Habiba degli ospiti da accogliere e il caffè da mettere a bollire, Advija ha il suo esame da superare, e i libri già studiati da restituire. Due, venti, seimila sveglie che suonano ogni mattina: si esce a fare la spesa, si visitano i banconi e le bancarelle e davanti a ognuna si immagina un pranzo, pensando alla faccia che farebbero i propri nipoti, i figli ormai cresciuti e un vecchio marito che dietro ai suoi baffi ha ancora sguardi amorevoli. Ogni pensiero si trasforma in azione, e non importa quale essa sia, poiché una carezza puoi farla su un volto vero, su una foto ingiallita o sulla terra nera che da quindici anni non ti restituisce il suo corpo.

È in una delle centinaia di fosse comuni primarie e secondarie sparse fra Srebrenica e Tuzla che dormono ancora il marito di Hajra, il figlio di Habiba, il padre di Advja. Mani, braccia, teschi e nessun marmo su cui poter pregare. Solo un ricordo, rivolto da qualche parte, verso gli occhiali spessi persi da qualche parte nella terra, il corano gonfio di umidità, i fazzoletti irrigiditi in tasca, i ciondoli serrati in pugno e dentro al ciondolo la foto di lei.

Lei che è Srebrenica e non la guerra, ed è al femminile come la vita e la speranza. Lei, a cui rimane ancora oggi il compito più arduo: tenere insieme la vita che continua e il ricordo che ritorna. Serbarli entrambi dentro, per tirarli fuori di fronte a quella foto, oppure al volto sensibile e amico di Virginia Farina, e insieme a lei sorriderne ancora.

 

Simone Arminio e Mara Pitari
Studio Giornalistico Rizoma
www.rizomacomunicazione.it